Oltre i pazienti, anche i sanitari coinvolti negli incidenti necessitano di supporto dalla propria organizzazione. Il mondo sanitario è per natura “fallibile”, a causa del numero e della complessità delle scelte, dei processi organizzativi e delle reazioni biologiche che si intrecciano nel percorso di cura.
Dati
Uno studio israeliano citato da Atul Gawande nel suo libro “Check list, come fare andare meglio le cose” (Einaudi, 2009) ha dimostrato che un paziente-tipo richiedeva l’esecuzione di 178 azioni individuali al giorno, ognuna delle quali presentava rischi. Fu osservato che, ogni cento di queste azioni, infermieri e medici commettevano soltanto un errore, ma diluito nell’arco di 24 ore generava una media di due errori al giorno per ogni utente trattato. Secondo il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la frequenza degli errori medici in diversi Paesi è compresa tra il 3,2% e il 16,6% di tutte le attività sanitarie messe in campo. Il 14% di questi errori porta alla morte e il 70% a varie disabilità.
Mitigazione dell’errore
In questo orizzonte si colloca la centralità della sicurezza nelle cure e gli interventi di mitigazione del rischio che agiscono:
- rafforzando la gestione del rischio clinico;
- investendo nella formazione;
- creando un sistema di Risk Management incentrato sulla “cultura dell’errore”, ovvero quella cultura che non cerca colpevoli (blame culture), ma incentiva a condividere gli errori e gli eventi sentinella per ridurne la probabilità.
Seconda vittima
Un aspetto che, invece, ha ricevuto meno attenzioni riguarda il cosiddetto fenomeno della “seconda vittima”, definita come qualsiasi operatore sanitario che sia stato negativamente influenzato dal coinvolgimento diretto o indiretto in un evento accidentale imprevisto, errore accidentale o lesione del paziente. Fa riferimento al disagio emotivo e psicologico sperimentato dagli operatori sanitari a seguito di eventi avversi. In Europa la prevalenza del fenomeno varia dal 35 al 75%, mentre negli Stati Uniti è stimata tra il 10 e il 60%. Le stime globali suggeriscono che quasi il 50% degli operatori sanitari sperimenti la sindrome della seconda vittima almeno una volta nella propria carriera e la prevalenza varia del 10,4% al 43,3%.
Sintomi e conseguenze
In base alla gravità dell’evento, i sanitari “seconde vittime” manifestano tachicardia, ipertensione, tensione muscolare, tachipnea, insonnia, senso di colpa, depressione, pensieri intrusivi e insicurezza. Alcuni degenerano nel disturbo da stress post-traumatico e burnout. Dal punto di vista lavorativo, sviluppano una ridotta capacità di gestire i pazienti, sfiducia in sé stessi, timori di contenziosi. Evitano di eseguire procedure complesse, e, aspetto forse più preoccupante dal punto di vista della sicurezza generale, non denunciano l’accaduto (laddove ci fosse un secondo errore), per paura delle ripercussioni e per essere considerati inaffidabili. L’impatto a livello organizzativo include la compromissione del funzionamento del team, maggiori costi derivanti dalla pratica difensiva, assenteismo, turnover e perdita di personale altamente specializzato.
Interventi a favore dei sanitari
La priorità dopo ogni evento, errore o quasi-errore è prendersi cura del paziente e della famiglia. Tuttavia, gli operatori sanitari coinvolti in tali incidenti necessitano anch’essi del supporto della propria organizzazione. La maggior parte degli studi ha individuato nel supporto e confronto tra pari, il primo e più efficace intervento, in grado di ridurre la pressione sulla seconda vittima.
I programmi di supporto tra pari includono un primo soccorso emotivo e psicologico delle seconde vittime, individualmente o di gruppo, della durata di una o più sedute spalmate in più settimane. È indispensabile, in questi casi, sposare una cultura non giudicante. Tra l’altro le seconde vittime, spesso, durante la fase di analisi dell’errore tendono ad esacerbare la loro colpevolezza, enfatizzando ulteriormente il proprio errore, come se si sentissero davvero gli unici responsabili dell’evento sentinella. Non solo. Secondo una revisione di Timothy Sheng Khai Ong et al., (2025), solo un sottoinsieme di seconde vittime ha aderito al suddetto programma, con tassi di rifiuto segnalati dal 40 al 65%.
Interventi basati invece sulla mindfulness, tendenti a ridurre lo stress, anche ricorrendo alla meditazione, hanno avuto significativi benefici emotivi e psicologici. La natura strutturata di questi interventi fornisce strategie di coping mirate, a differenza dei modelli di supporto tra pari, che generalmente si basano sulla convalida emotiva informale. Pertanto, i programmi di supporto tra pari dovrebbero rappresentare il punto di ingresso, propedeutici per interventi più strutturati e duraturi, fornendo quindi un approccio olistico.
Il substrato sul quale strutturare tutti gli interventi descritti, non deve essere giudicante. In particolare, alcuni studi hanno sottolineato il ruolo fondamentale del coordinatore delle professioni sanitarie. Tale figura professionale deve essere dotata di una sensibilità estrema, deve rappresentare una figura cardine alla quale riferire l’accaduto senza il timore di essere giudicati negativamente.
Conclusioni
Gli errori hanno un loro periodo di incubazione, all’interno del quale orbitano gli operatori sanitari, spesso ultimo tassello in grado di accompagnare la filiera dell’errore verso il paziente. Non possono quindi essere considerati gli unici responsabili salvo casi eccezionali. Il piano di risk management deve salvaguardare anche loro, “colpevoli” semplicemente di completare ed essere il volto di un processo imperfetto. Interventi in tal senso, migliorano la salute degli utenti e preservano quella degli operatori, riducendo notevolmente il turnover, i disturbi da stress e fenomeni patologici come il burnout.
