Le modifiche ai criteri di McDonald per la diagnosi della sclerosi multipla, che ampliano quelli del 2017, pubblicate su ‘The Lancet Neurology’, segnano un passaggio importante nella storia di questa patologia. La principale novità è la possibilità di riconoscere la malattia in una fase molto più precoce, integrando la valutazione delle vie ottiche, del liquido cefalorachidiano e delle lesioni anche silenti, talvolta scoperte incidentalmente.
Diagnosi precoce e cultura sanitaria
«Anticipare il momento della diagnosi è fondamentale per cominciare subito le terapie di cui la persona può aver bisogno» spiega Mario Alberto Battaglia, presidente della Fondazione Italiana Sclerosi Multipla (FISM). «Le terapie antinfiammatorie oggi disponibili permettono di rallentare la progressione della malattia: riducendo l’infiammazione, si riduce anche il danno cumulativo. E i dati scientifici dimostrano che una diagnosi precoce porta a un netto miglioramento della prospettiva di vita».
Fino a pochi anni fa la diagnosi veniva effettuata solo in presenza di lesioni multiple evidenti alla risonanza magnetica, oggi invece può avvenire anche con lesioni isolate, rilevate per altri motivi come traumi o emicranie, senza aspettare la disseminazione nel tempo e nello spazio. Un cambiamento che impone anche una nuova consapevolezza nella rete sanitaria. «Il Servizio Sanitario Nazionale è già in grado di fare queste diagnosi, ma serve una maggiore cultura diffusa» prosegue Battaglia. «Occorre sensibilizzare i medici di medicina generale, che devono saper riconoscere i segnali precoci, e coinvolgere tutti i neurologi, non solo quelli dei centri specializzati».
Nuovi criteri per l’organizzazione dei percorsi terapeutici
Sul fronte terapeutico, l’approccio è completamente mutato: non si parte più da trattamenti di prima linea per arrivare successivamente a trattamenti ad alta efficacia. L’obiettivo è, utilizzando nuovi criteri diagnostici, cominciare una terapia ad alta efficacia alle prime evidenze di malattia per non fare accumulare il danno. Questa scelta, nel breve periodo, potrebbe portare a un aumento dei nuovi pazienti messi in terapia, ma è un effetto transitorio. «È come negli screening oncologici: sembra diagnosticare di più solo perché si arriva prima. A regime, i numeri tornano stabili, ma con benefici enormi per le persone».
Dal punto di vista organizzativo, non sono richieste rivoluzioni strutturali, ma serve garantire rapidità nei percorsi diagnostici. «Le risonanze devono essere fatte in centri di qualità, con macchine e protocolli adeguati. Gli esami al nervo ottico e al liquor si eseguono già, ma serve ridurre le liste d’attesa e creare canali preferenziali per i centri di sclerosi multipla» precisa Battaglia.
Risultati e prospettive della ricerca
I risultati, intanto, sono già evidenti. Negli anni Settanta una persona con diagnosi di sclerosi multipla aveva una prospettiva di grave disabilità entro cinque-sette anni. Oggi quella probabilità si è ridotta a circa il 15%. «Grazie alle diagnosi precoci e alle nuove terapie, possiamo offrire ai giovani una prospettiva di vita serena, impensabile solo pochi decenni fa» sottolinea Battaglia. Un altro passo importante riguarda la comprensione biologica della malattia. «Non parliamo più di diverse forme di sclerosi multipla: recidivante-remittente, primaria o secondaria progressiva. È un’unica patologia che si manifesta in fasi diverse. Questo cambia radicalmente l’approccio terapeutico».
Le prossime sfide sono già all’orizzonte. «Stanno arrivando nuovi farmaci che agiscono non solo sull’infiammazione, ma anche sulla degenerazione del sistema nervoso. Avremo quindi una doppia terapia: una per controllare l’autoimmunità e una per rallentare il danno neurodegenerativo. È un passo decisivo verso una vita più lunga e di qualità per le persone con sclerosi multipla».
