La nascita di una Casa di Comunità è un processo complesso, non limitato alla “costruzione di uno spazio fisico”, ma che deve tradursi in un nuovo modo di fare sanità territoriale, capace di rispondere ai bisogni delle persone in modo integrato e continuativo. Secondo Marinella D’Innocenzo, membro del Comitato Scientifico di Welfair e moderatrice della tavola “Come nasce una Casa di Comunità?” della fiera del fare Sanità, l’Italia è ancora molto lontana dal raggiungere tali obiettivi, fissati dal DM 77 e dal PNRR Missione 6 Salute. «Oggi – spiega – delle 1.723 Case di Comunità previste dalla programmazione nazionale, solo 50 hanno tutti i servizi attivi. Ben 660 ne hanno soltanto uno. Questo significa che, di fatto, quasi nessuna struttura risponde pienamente ai requisiti previsti per le due tipologie, Hub e Spoke».
Le criticità: servizi da integrare e personale insufficiente
Il primo nodo è quello del personale e, dunque, delle risorse umane: «Non possiamo parlare di Case di Comunità se non abbiamo il personale necessario a renderle operative. Servono professionisti sanitari, infermieri di famiglia e di comunità, operatori sociali. Senza di loro, le Case restano solo contenitori vuoti». Inoltre, un altro nodo cruciale sottolineato da D’Innocenzo è relativo all’integrazione dei servizi. «Le Case di Comunità dovrebbero rappresentare “lo snodo della rete territoriale”, collegando sanità e sociale, medici di base e servizi di prossimità. Oggi questa integrazione non c’è – prosegue – perché i sistemi informativi sanitari e sociali non dialogano tra loro. I database delle ASL, dei Comuni e delle Regioni non sono interconnessi. Senza una piattaforma digitale condivisa, è impossibile incrociare i bisogni sanitari e sociali dei cittadini».
La tecnologia come leva di efficienza
«La telemedicina, la televisita e la teleassistenza sono strumenti fondamentali per garantire una vera sanità di prossimità, soprattutto nelle aree interne. Ma perché funzionino, è necessario che l’infrastruttura digitale sia solida e che i professionisti siano formati a usarla». Per D’Innocenzo, dunque, oltre alle infrastrutture fisiche, servono «investimenti nella tecnologia digitale e nella formazione del personale. Entro giugno 2026, grazie ai fondi PNRR, dovrebbero essere completate tutte le strutture previste. Tuttavia – avverte D’Innocenzo – non basta costruirle: bisogna farle funzionare, dare loro gambe e strumenti».
Medici di base e rete dei servizi: nodi ancora aperti
Anche la presenza di medici di medicina generale all’interno delle Case di Comunità rappresenta un aspetto critico. «Oggi non c’è ancora chiarezza su come e quando saranno coinvolti. Alcune Regioni hanno già firmato accordi integrativi, ma in molte altre, come nel Lazio, si è ancora in attesa. La presenza quotidiana del medico di base è essenziale per garantire continuità assistenziale e ridurre il ricorso improprio al pronto soccorso». Proprio la riduzione degli accessi ospedalieri non urgenti è uno degli obiettivi centrali del modello. «Se funzionassero come previsto – conclude – le Case di Comunità alleggerirebbero la pressione sui pronto soccorso e offrirebbero ai cittadini un punto di riferimento stabile e vicino».
