Medicina difensiva, contenzioso sanitario, alleanza terapeutica tra medici e pazienti: queste le tematiche principali alla base del sistema salute, sulle quali la legge 24/2017 ha segnato un vero e proprio cambio di passo rispetto ai precedenti interventi legislativi. L’aspetto sul quale intendo soffermarmi nasce dall’esperienza personale sul campo come operatore del diritto prima ancora che come studioso della materia, e mira ad evidenziare le criticità legate alla condizione di procedibilità introdotta dall’art. 8, in grado di incidere negativamente sui macro-obiettivi che il legislatore si era meritoriamente prefissato.
La preoccupante crescita del contenzioso
Mi riferisco in particolare alla riduzione del numero di cause legali, soprattutto per quanto riguarda i casi di malpractice medica, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli preoccupanti. Come conseguenza naturale di ciò, è necessario tutelare i professionisti sanitari dalle azioni legali ingiustificate e prive di fondamento, pur rispettando, naturalmente, i diritti costituzionali dei pazienti.
Il calvario del personale sanitario
Troppo spesso sono costretto a registrare nell’ambito della mia attività professionale la profonda frustrazione dei medici, liberi professionisti o dipendenti di strutture pubbliche o private. Questi soggetti, a seguito di un coinvolgimento in procedimenti penali o civili, hanno ben chiaro il calvario che li attenderà. A ciò si aggiungono le gravose conseguenze che quel cammino costelleranno, indipendentemente dall’accertamento o meno di una responsabilità a loro carico. Stress, discredito sociale, spese legali e aumento dei costi assicurativi restano, infatti, quasi sempre privi di effettivo ristoro.
I limiti dell’articolo 8
Ebbene proprio il meccanismo delineato dall’art. 8, finalizzato alla riduzione del contenzioso, mostra su tale aspetto tutti i suoi limiti. Le cause sono due: la prima è una formulazione per alcuni versi tecnicamente non condivisibile. La seconda consiste nella parziale sincrasia rispetto la difficile realtà con la quale gli operatori del diritto sono costretti giornalmente a scontrarsi.
Da un lato, infatti, l’introduzione di una condizione di procedibilità, da assolvere attraverso un tentativo obbligatorio di conciliazione a scelta tra Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite e mediaconciliazione, è certamente funzionale all’obiettivo prefissato. Dall’altro, tuttavia, la tempistica inutilmente stringente per avviare il giudizio, specialmente laddove si prediliga la prima opzione, è in grado di vanificarne completamente i benefici.
Un contrasto che risulta ancora più stridente quando ci si sofferma sulle molteplici peculiarità positive che il detto istituto, regolato dall’art. 696 bis c.p.c., aveva mostrato dal momento della sua introduzione nel marzo 2006. Infatti, figurava senza dubbio tra i motivi che avevano indotto il Legislatore ad assegnargli un ruolo così determinante nella norma in esame.
I meriti del 696 bis c.p.c
L’utilizzo di tale strumento permette:
- la verifica, in tempi relativamente rapidi, della fondatezza delle posizioni dei soggetti chiamati a parteciparvi;
- la possibilità di stipulare un accordo ovvero di comprendere appieno i rischi di una eventuale prosecuzione dell’azione sulla base delle risultanze della consulenza tecnica;
- per ultimo, seppure non di minore importanza, la possibilità per il danneggiato/ricorrente di quantificare in anticipo i costi che sarà costretto a sopportare per chiedere contezza delle proprie lagnanze. Il tutto è possibile anche perché si tratta di un procedimento che non prevede la liquidazione delle spese legali in favore delle controparti, spesso numerose in giudizi di responsabilità sanitaria.
Un termine che cade troppo presto
Ebbene, il termine di nove mesi, indicato al terzo comma dell’art. 8, nella maggiore parte dei casi si rivela insufficiente non solo a definire il tentativo di conciliazione demandato al CTU, ma anche semplicemente a licenziare la bozza della perizia. Questo costringe il ricorrente ad avviare comunque il giudizio nel timore di perdere l’attività sino a quel momento svolta, avviando così un contenzioso altrimenti evitabile.

Una situazione sul punto è “chiaramente” confusa
È necessario porre il tema delle più diverse interpretazioni dottrinali, con particolare riferimento alla declaratoria di improcedibilità del giudizio. Ancora oggi, a distanza di otto anni dal suo varo, è possibile sostenere che la situazione sul punto è “chiaramente” confusa, e infatti:
- non ci sono pronunce specifiche da parte della Suprema Corte;
- Le linee guida del Tribunale di Roma, del 2020, ricordano come «nel caso in cui, nel termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, il procedimento di consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi non sia ancora approdato al deposito dell’elaborato peritale la parte che abbia interesse sia alla consulenza tecnica sia alla conservazione degli effetti della domanda può proporre il ricorso […], ovvero decidere di assolvere la condizione di procedibilità mediante tentativo di mediazione» (pag. 11);
- Inoltre: «La perentorietà del termine di novanta giorni […] per il deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. ai fini dell’introduzione del giudizio di merito deve essere intesa nel senso che il rispetto del termine sia funzionale esclusivamente a preservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda introdotta con il ricorso per ATP e non alla procedibilità della domanda di merito». Se depositato oltre i 90 giorni, «il ricorso è procedibile, ma può produrre solo ex novo i suoi effetti sostanziali e processuali. La parte che voglia beneficiare della salvezza degli effetti della sua domanda ha l’onere di promuovere il giudizio di merito nelle forme del rito sommario, entro il termine di 90 giorni che decorre dalla scadenza del termine semestrale, anche nel caso in cui questa sia interessata a proseguire il procedimento ex art. 696-bis per conoscere l’esito della relazione e partecipare al tentativo di conciliazione» (pag. 10);
- I Tribunali chiamati a pronunciarsi sulla perentorietà del suddetto termine si sono espressi in modo diametralmente opposto (accaduto questo settembre).
Due tribunali, due interpretazioni
A distanza di soli tre giorni, infatti, il Tribunale di Castrovillari ha dichiarato l’improcedibilità della domanda: «Quanto esposto spiega l’improcedibilità della domanda […]. La non chiara formulazione della norma e l’assenza di precedenti in termini del Giudice di legittimità rappresentano gravi e eccezionali ragioni di compensazione delle spese di lite» – 19 settembre 2025 n. 1513.
Allo stesso tempo, quello di Santa Maria Capua a Vetere ha pronunciato la perdita dei soli effetti sostanziali e processuali, inclusa l’idoneità ad interrompere il decorso del termine della prescrizione: «… si osserva che la più recente giurisprudenza di merito e di legittimità ha ritenuto che il mancato rispetto dei termini previsti dal comma terzo dell’art. 8 della L. 24/2017 per dare corso al procedimento sommario di cognizione (90 giorni dal deposito della perizia ex art. 696 bis c.p.c. o sei mesi dall’inizio del procedimento cautelare), se, da un lato, non determina l’improcedibilità della domanda; dall’altro lato ne comporta la perdita degli effetti sostanziali e processuali, inclusa l’idoneità ad interrompere il decorso del termine della prescrizione» – 16 settembre 2025 n. 2715).
Conclusione
Ebbene, anche in ragione della mancata funzione suppletiva spesso svolta dalla giurisprudenza, si rivela ormai indifferibile un intervento normativo. Al di là di modifiche più radicali, deve mirare, quantomeno, a rendere facoltativo e non già perentorio il termine oggi così qualificato. In questo modo permetterebbe la piena fruizione dell’art. 696 bis c.p.c. e con essa il rispetto dell’obiettivo che ha ispirato la Legge Gelli – Bianco in tema di riduzione del contenzioso e risparmio di spesa.
