“Adesso pronuncia il discorso di Natale come se fossi il Presidente della Repubblica, dissi io passandogli uno spazzolino a mo’ di microfono. Lui iniziò a parlare, a lungo e seriamente, mentre gli operatori del Dipartimento di Salute Mentale ci guardavano trasecolati. Poi capii. Per loro, quel paziente era muto. Non avevano mai sentito il suono della sua voce”.
“È questo che fa la clown therapy: tira fuori la parte sana delle persone. Noi – dice Rodolfo Matto– non siamo terapeuti. È terapeutico quello che facciamo”.
Rodolfo è tra i primi fondatori e attuale presidente di Teniamoci per Mano Onlus: 1200 clown volontari in 10 regioni e 220 ospedali, strutture sociosanitarie, case famiglie convenzionate. Teniamoci per Mano è la più importante associazione in Italia dedicata a questa attività.
Cosa è la clown therapy?
“È relazione nel qui ed ora. È l’incontro nella radice comune della nostra umanità. Io ti parlo senzala memoria del passato né il peso del futuro perché nel presente puoi essere felice anche se morirai o soffrirai l’istante successivo. Siccome la sanità e la medicina guardano al sintomo, al male, tendono ad essere un po’ serie, irreggimentate, gerarchiche, ma è giusto così. Quello che serve è un ingrediente in più, per questo si parla del bisogno di “umanizzare le cure”. La clown therapy guarda alla persona senza pregiudizi: il sintomo, la malattia, la morte non ci interessano. Ci interessa la vita”.
Cosa non è la clown therapy?

“Non è un’animazione perché chi fa animazione occupa il tempo; noi ci occupiamo della persona. E non è una consolazione, perché chi fa clown therapy deve essere spietato. Se guardiamo al paziente con la pietas, ci mettiamo sopra di lui. No, la clown therapy è l’incontro della mia parte più libera con la parte più libera della persona che ho di fronte. Per questo fa bene ad entrambi. Quando dico ciao, lo dico come i Maya: Vedo nei tuoi occhi un altro me stesso e ti riconosco. Il sintomo non ha posto in questa scintilla”.
Per qualcuno è difficile ridere del suo dolore?
“Il naso rosso apre molte porte, ma a volte va tolto. Un giorno entrai con due clown donne nella camera di un malato terminale all’interno di un hospice. Trovammo un uomo tra i 45 e i 50 anni, lucido, furioso, con la pelle attaccata alle ossa. Stava morendo e voleva fare ancora molto. La presenza delle donne era un dolore e una vergogna in più alla luce della sua debolezza.
Davanti ad un rifiuto non si insiste, lo si rispetta. Mi tolsi il naso rosso e lo salutai incamminandomi verso l’uscita. All’ultimo momento notai un piccolo borsello con il simbolo del Napoli. E forza Juve dissi. «Come forza Juve?» rispose d’istinto. Avevo trovato la sua passione. Così abbiamo parlato 15 minuti e ci siamo lasciati ridendo. Raramente i no sono assoluti. C’è sempre una chiave per arrivare alla persona.
Come si fa a divenire clown?

“Lo siamo tutti e tutte alla nascita perché non abbiamo parole ma solo emozioni. Poi arrivano le parole, gli schemi, le convenzioni che danno alla mente un certo predominio, un modo di vedereche ci porta a mettere in risalto le differenze. Io ci sono arrivato attraverso un percorso lungo: una prima età adulta non facile, il teatro, l’incontro con gli altri anche in situazioni estreme, dal lavoro nei reparti di salute mentale all’accoglienza dei profughi durante la guerra del Kosovo.
La clown terapia non aiuta solo le persone ricoverate ma serve anche ai clown. Più che nelle pediatrie, io cerco di andare negli hospice. Quando sento che mi sto allontanando da una parte di me, è neiluoghi senza speranza che la ritrovo”.
Come è la relazione con il personale e le organizzazioni sanitarie?
Non sempre semplicissima perché, comprensibilmente, la sanità tende ad essere molto focalizzata su sé stessa, sulla malattia, sulla sua organizzazione interna: prelievi, orari, procedure. In questo ordine i clown sembrano un po’ fuori posto. Ma è questo il loro valore: essere complementari; concentrarsi sulla parte che rimane sana e celebrarla.
La percezione, per fortuna, sta cambiando e non solo per quanto riguarda il ruolo di supporto dei clown in situazioni “facili” come un prelievo o una flebo ad un bambino. È un bel segnale che in associazione abbiano iniziato ad iscriversi anche i medici. Un esempio eccezionale è il professor Giuseppe Barbagallo, già primario a Nicosia e ora clown in corsia. Del resto, anche il personale sanitario ha bisogno di clown perché ha bisogno di ridere, di essere nel qui ed ora, di togliersi il peso della situazione e allontanare il burnout. E questo è tanto più vero nei reparti ‘difficili’ dove le storie che finiscono bene sono le meno numerose”.