Le innumerevoli sfide che la sanità quotidianamente ci “lancia” stanno lentamente svuotando l’anima professionale degli operatori sanitari e sociosanitari.
Negli ultimi anni abbiamo scoperto malesseri e patologie che appartenevano ad altri settori lavorativi. Parole come burnout, intention to leave, aggressioni hanno riempito le sale di degenza e, purtroppo, le prime pagine dei giornali.
Tutto ciò non ha fatto altro che velocizzare lo stillicidio di esercenti una professione sanitaria verso un cambio radicale della propria vita. Cambiare lavoro!
Il Ministero della salute e le aziende sanitarie hanno compreso l’importanza del benessere lavorativo. Hanno avviato campagne di sensibilizzazione, introdotto strumenti di monitoraggio della qualità di vita lavorativa, esaltando al contempo gli innumerevoli lavori di ricerca in tal senso.
Alcuni progetti hanno intrapreso un percorso diverso: valorizzare il lavoro, ma ancora prima valorizzare i professionisti che si occupano delle professioni sanitarie.
Entrando in punta di piedi anche noi in questo nuovo mindset, abbiamo intervistato l’autrice Stefania Brucini.
Chi opera in contesti sanitari, in considerazione di quanto detto finora, come può allenare “la felicità”?
Allenare la felicità non significa rincorrere uno stato di perenne leggerezza o positività. In contesti ad alta intensità emotiva come quelli sanitari, la felicità è un equilibrio dinamico, fatto di senso, relazioni di qualità, spazi di recupero, padronanza e riconoscimento. E va allenata proprio come si allena un muscolo: con piccoli gesti ripetuti nel tempo.
Nel mio metodo, Simple Tiny Shifts®, parlo infatti di “allenamento alla felicità”, proprio come pensiamo a qualsiasi allenamento di uno sport.
Nel caso della felicità significa progettare e inserire nella propria quotidianità degli happiness booster, ovvero piccole attività e e micro-routine che ci riportano a ciò che ci dà un’iniezione di felicità, un boost, appunto, una spinta. Queste piccole attività possono sembrare banali, ma non lo sono. Alcune di esse sono state provate scientificamente, come fare attività fisica, stare all’aria aperta, praticare gratitudine, riutlizzare un talento che non usiamo da tempo, pianificare un evento piacevole (questa si chiama “la gioia dell’anticipazione”).
Altri happiness booster sono strettamente personali: per qualcuno potrebbe essere dedicarsi ad un hobby, suonare, ascoltare musica, bere un caffè con tutta calma, o una piccola micro-routine. Consiglio non solo di identificare cosa ci dà un boost di felicità, ma anche di sperimentare e pianificarli intenzionalmente durante la giornata. Anche nei giorni più difficili, è possibile proteggere piccoli spazi di autonomia, significato e autoefficacia. Sono gesti minimi, ma hanno un impatto enorme sulla capacità di rigenerarsi.
Tu parli di 3 dimensioni che contribuiscono al benessere del lavoratore: lavoro, carriera, vocazione. Puoi approfondire questa tua visione?
La distinzione tra Job, Career e Calling (o Vocation) è stata formalizzata per la prima volta in ambito accademico da Amy Wrzesniewski e colleghi, nel celebre studio pubblicato nel 1997. È interessante notare come questa ricerca pionieristica sia stata condotta proprio con in ambito sanitario. Lo studio[1] è stato condotto su 196 dipendenti di un ospedale universitario, tra cui medici, infermieri, tecnici, farmacisti e personale amministrativo con l’obiettivo di esplorare in che modo le persone percepiscono il proprio lavoro. I risultati furono sorprendenti: coloro che vivevano la propria professione come una “vocazione” mostravano livelli significativamente più alti di motivazione, resilienza e soddisfazione rispetto a chi la considerava semplicemente un “impiego”.
Un secondo studio[2], condotto sempre da Amy Wrzesniewski insieme a Jane Dutton, si è concentrato sugli addetti alle pulizie negli ospedali e ha mostrato come alcune di queste persone reinterpretavano il proprio lavoro come parte integrante del processo di cura: parlavano con i pazienti, creavano un ambiente più umano, contribuivano al benessere complessivo. Questo studio ha evidenziato che il significato del lavoro non dipende dal ruolo, ma da come lo si vive, ed è alla base del concetto di job crafting.
Ecco nel dettaglio le tre dimensioni:
- Job (lavoro): è un’attività svolta principalmente per ottenere uno stipendio. Coincide con le mansioni quotidiane, i turni, le procedure. Il lavoro è visto come un mezzo per vivere.
- Career (carriera): è un percorso orientato alla crescita, all’avanzamento e al riconoscimento professionale. Conta l’evoluzione, il successo, lo sviluppo delle competenze.
- Calling (vocazione): è una vera e propria chiamata, vissuta come forma di contributo al bene comune, spesso legata a un significato più profondo. Non si lavora solo per sé, ma per qualcosa che si percepisce più grande.
Nella mia esperienza, queste tre modalità non sono rigide né esclusive: possono coesistere, evolvere nel tempo e anche sovrapporsi. Ci sono persone che iniziano con un forte senso di vocazione e, dopo anni di stress e mancanza di riconoscimento, si ritrovano a vivere il lavoro come un semplice job. Altre, al contrario, riscoprono la propria vocazione proprio nei momenti di difficoltà, quando rimettono a fuoco il perché più profondo che le ha portate a scegliere questa professione.
Nel mio lavoro, accompagno spesso le persone a riconoscere dove si collocano oggi tra queste tre visioni e a comprendere cosa serve per ritrovare equilibrio e motivazione.
Questa distinzione è diventata per me un faro pratico, perché aiuta a fare chiarezza: quando sappiamo che tipo di relazione abbiamo con il nostro lavoro, possiamo anche capire che tipo di cambiamento desideriamo.
Il job crafting può essere una soluzione?
Assolutamente sì, e dovrebbe diventare una pratica diffusa nei contesti sanitari. Job crafting è un termine inglese che possiamo tradurre come “rimodellare il proprio lavoro”.
A mio avviso è affascinante e molto ispirante l’uso della parola “Craft”.
In inglese, “craft” significa artigianato, mestiere, abilità manuale. Come verbo, “to craft” vuol dire plasmare, modellare, costruire con cura e attenzione. Un termine che richiama la manualità dell’artigiano, ma anche la creatività e l’intenzionalità con cui possiamo dare forma al nostro lavoro.
È un’immagine potente: invece di subire passivamente il proprio ruolo, si diventa artigiani della propria professione, trovando piccoli modi per personalizzarla, renderla più umana, più adatta a sé.
Non significa cambiare mestiere, ma cambiare il modo in cui viviamo, interpretiamo e organizziamo ciò che già facciamo.
Esistono tre forme principali di job crafting:
- Modificare le attività (task crafting): cambiare l’organizzazione o la distribuzione delle proprie mansioni. Ad esempio, dare più spazio a ciò che dà soddisfazione e ridurre ciò che drena energia, quando possibile.
- Modificare le relazioni (relational crafting): cambiare il modo in cui si interagisce con colleghi, pazienti o collaboratori. Può significare costruire alleanze positive, creare spazi di scambio, o limitare le interazioni tossiche.
- Modificare il significato (cognitive crafting): cambiare il modo in cui si pensa al proprio ruolo, riscoprendo il valore e l’impatto che ha, anche quando le condizioni esterne sono difficili.
In pratica, il job crafting è un invito a tornare protagonisti, anche in contesti complessi, trovando piccoli margini di libertà e significato nel lavoro quotidiano. È uno strumento potente per prevenire il burnout e recuperare motivazione.
Nel mio lavoro affianco molte persone che, pur pensando inizialmente che l’unica via fosse “cambiare lavoro”, scoprono che è possibile cambiare prospettiva, contesto, ruolo o atteggiamento, anche restando nello stesso luogo. Il job crafting non è solo uno strumento individuale: è un atto di innovazione dal basso, che può cambiare la cultura di un intero reparto.
Quali consigli ti senti di dare ad un professionista demotivato, desideroso di riconquistare un proprio benessere psico-fisico e sociale?
Il primo passo non è stravolgere tutto dall’oggi al domani, ma fermarsi e ascoltarsi per fare ordine e chiarezza. Sembra banale, ma molti professionisti che seguo hanno talmente interiorizzato l’urgenza, la dedizione, o hanno inserito il cosiddetto “pilota automatico”, da non avere più spazio mentale per chiedersi: “Come sto davvero?” “Qual è il significato del mio lavoro (e del mio tempo)?”.
Da lì, possiamo iniziare un lavoro a piccoli passi: recuperare energia, creare confini, riprendere in mano la propria agenda, ricostruire un senso di autonomia.
(Anche) Come Designing Your Life™ Coach (metodo nato a Stanford dai professori Bill Burnett e Dave Evans, che aiuta a progettare una vita e un lavoro più allineati ai propri valori e desideri, usando gli strumenti del design thinking), accompagno spesso le persone proprio in questo tipo di percorso: non per cambiare tutto, ma per ripensare il proprio modo di stare dentro al lavoro, partendo da chi sono oggi e da cosa desiderano portare nel mondo.
Questo approccio si integra perfettamente con il mio metodo Simple Tiny Shifts®, che traduce quella visione in micro-cambiamenti quotidiani, sostenibili e trasformativi. Dalla visione all’azione, un passo alla volta.
Uno degli strumenti più efficaci è scolpire il proprio lavoro, cioè modellarlo a partire da ciò che ti dà energia, significato e motivazione. Non serve cambiare ruolo: servono piccoli spostamenti intenzionali, dentro ciò che già fai.
Ecco alcune domande guida che consiglio sempre per attivare questo processo di trasformazione.
Partendo dal significato: cosa rende il mio lavoro importante per me o per gli altri? Come posso ricordarmelo più spesso? Qual è l’impatto positivo di questa attività sugli altri? (Ad esempio, un addetto alle pulizie potrebbe rispondere: “Garantisco ambienti sani e accoglienti, migliorando il benessere delle persone.”).
Lavorando sulle relazioni: Come potrei migliorare le relazioni con colleghi, pazienti, superiori? C’è qualcuno con cui vorrei costruire un’alleanza diversa o più positiva?
Modellando le attività: Cosa potrei aggiungere, togliere o fare diversamente nelle mie mansioni? Ci sono piccoli margini di manovra che posso esplorare per avvicinare il lavoro ai miei interessi? Quali attività mi nutrono e quali mi prosciugano? Cosa posso modificare nella mia giornata per fare più spesso ciò che mi dà energia?
Ed infine l’azione: Quali piccole decisioni posso prendere già oggi per ridisegnare il mio modo di lavorare?
Alla fine, suggerisco sempre di scegliere una sola azione concreta da sperimentare nei prossimi sette giorni.
È importante spostare il focus dal “cosa” fai al “come” lo fai. Anche quando non puoi cambiare il contenuto del lavoro, puoi cambiare il tuo modo di viverlo. Fare più spazio a ciò che dà energia e ridurre o accettare con consapevolezza ciò che ti pesa.
Non è un processo rapido, ma è trasformativo e funziona.
Metti in pratica i tuoi valori. Come?
Trasformare i valori in azioni significa partire da ciò che è davvero importante per noi – come l’empatia, il rispetto, il senso di responsabilità, l’armonia, la crescita, l’onestà, la sicurezza, la cooperazione, solo per citarne alcuni – e tradurli in comportamenti concreti nella vita quotidiana. È un passaggio fondamentale per rendere i valori qualcosa di vissuto, e non solo dichiarato.
Il primo passo è riconoscere i propri valori autentici, non quelli che ci sono stati trasmessi automaticamente dalla famiglia, dalla società o dall’ambiente in cui siamo cresciuti. Una volta identificati, è fondamentale chiedersi: “Cosa posso fare, in concreto, per onorare questo valore nella mia vita quotidiana?” Solo così i valori diventano guida e motore delle nostre azioni, anziché restare concetti astratti.
Per esempio, se un operatore sanitario ha tra i suoi valori fondamentali la cura della persona, l’ascolto, o l’empatia può trasformarli in azione decidendo di dedicare due minuti in più ad ascoltare ogni paziente senza fretta, anche in giornate intense. Quel tempo in più diventa un gesto concreto che incarna il suo valore, rinforza la motivazione e dà senso al lavoro quotidiano.
Quando i valori non si trasformano in azioni concrete, si crea un divario tra ciò che è importante per noi e ciò a cui effettivamente dedichiamo tempo, attenzione ed energie. Questo disallineamento, spesso invisibile, genera insoddisfazione e senso di vuoto, anche se “all’apparenza va tutto bene”. Per esempio, se per un operatore sanitario il valore centrale è la crescita professionale, ma le giornate sono assorbite solo da compiti ripetitivi e non si trova mai tempo per formarsi o aggiornarsi, quel valore resta inascoltato. Nel tempo può nascere frustrazione, disconnessione dal lavoro e perdita di motivazione. Allineare i propri gesti quotidiani ai propri valori è ciò che permette di sentirsi più coerenti, soddisfatti e vivi. Anche mezz’ora a settimana di formazione può riattivare quel senso di significato.
In molti casi non è necessario rivoluzionare la vita, ma semplicemente iniziare a notare quando si sta agendo per dovere e quando invece per scelta.
[1] Wrzesniewski, A., McCauley, C., Rozin, P., & Schwartz, B. (1997). Jobs, Careers, and Callings: People’s Relations to Their Work. Journal of Research in Personality, 31(1), 21–33.
[2] Wrzesniewski, A., & Dutton, J. E. (2001). Crafting a job: Revisioning employees as active crafters of their work. Academy of Management Review, 26(2), 179–201. https://doi.org/10.5465/amr.2001.4378011