La precarietà dei giovani ricercatori in Italia

Cocozza (associazione BraYn): «Un Paese che non investe nella ricerca non investe nel proprio futuro»
giovani ricercatori in Italia

Nel 2025, la situazione dei giovani ricercatori in Italia è caratterizzata da precarietà, sottofinanziamento e proteste diffuse. Nonostante l’introduzione del Contratto di Ricerca nel 2022 per sostituire gli assegni di ricerca con forme contrattuali più tutelate, la sua attuazione è rimasta incompleta, lasciando molti giovani studiosi in un limbo professionale. La riforma proposta dalla ministra Bernini ha introdotto nuove figure contrattuali, ma ha sollevato critiche per l’aumento della precarietà e la mancanza di tutele adeguate.

Attualmente, circa il 40% del personale docente e di ricerca è costituito da precari, con oltre 20.000 assegnisti di ricerca. Inoltre, nel breve termine la situazione non migliorerà siccome la legge di bilancio prevede riduzioni per il triennio 2025-2027. Sono previsti tagli di 247 milioni di euro nel 2025, 239 milioni nel 2026 e 216 milioni nel 2027. Infine, le università hanno visto il proprio Fondo di Finanziamento Ordinario depauperato di ulteriori 170 milioni.

Per questi motivi, la fuga di cervelli continua a essere un problema significativo, siccome molti giovani ricercatori scelgono di lavorare all’estero a causa delle migliori condizioni offerte. Abbiamo raggiunto Sirio Cocozza, neuroradiologo e neuroscienziato napoletano e parte dell’associazione BraYn che supporta i giovani ricercatori nel campo delle neuroscienze, per capire cosa spinge a continuare a fare ricerca in Italia.

Sirio Cocozza
  • Com’è la tua esperienza di ricercatore in Italia?

«Dopo aver iniziato i miei studi alla facoltà di Medicina della Federico II di Napoli nel 2006. Nello stesso Ateneo ho concluso il percorso di studi con un dottorato di ricerca nel 2021. Successivamente, ha avuto inizio un turbinio di borse di studio e assegni di ricerca fino alla metà dello scorso maggio. Da allora sono in attesa di un nuovo incarico. Un giovane che prova disperatamente a fare carriera nella ricerca, si ritrova troppo spesso immischiato in queste forme di lavoro precarie, a combattere contro la carenza di fondi, lottare per poter usufruire dei macchinari necessari agli esperimenti e così via».

«Perché mai un giovane dovrebbe fare ricerca in questo sistema? Io, che mi riconosco un certo tratto tafazziano, per amore di questo lavoro mi sono sottoposto e mi continuo a sottoporre alla penitenza, anche se la sensazione è talvolta quella di essere il salmone che nuota controcorrente».

  • Quindi cos’è che ti fa andare avanti?

«Personalmente, la mia volontà di ferro di voler fare questo mestiere, perché nella ricerca c’è una componente di curiosità e, in qualche modo, di gioco che apprezzo davvero molto. La creatività è una caratteristica spesso troppo sottovalutata in questo lavoro. Purtroppo, se scrivere lavori scientifici è a tutti gli effetti un lavoro, che viene riconosciuto in ambito accademico (e questo fa piacere), ma non è ancora riconosciuto come valuta, e alla fine del mese uno deve pagare l’affitto e le bollette. L’attuale generazione di ricercatori ci prova, nonostante tutto. E seppur la spesa per essi sia risibile, la nostra produttività è pienamente al livello di quella dei nostri colleghi europei».

  • Si tratta di una situazione cronica oppure c’è è precipitata negli ultimi anni?

«Non è qualcosa su cui si possa puntare il dito solo su uno specifico governo, assolutamente. Si tratta di un andamento cronico, che va avanti da un sacco di tempo, stabilmente in decrescendo. Oltre a questo, pesa anche il senso di futilità che questo paese ti fa percepire. L’italiano medio non crede che la ricerca sia veramente utile, se non ci vede addirittura come l’alchimista che gioca con il paiolo e le pozioni».

  • Anche dopo la pandemia quindi niente cambiamento culturale?

«C’è stata una breve presa di coscienza generale sulla ricerca e sulla medicina della loro importanza a seguito della pandemia. Tuttavia, dopo un iniziale picco, l’impressione è di essere tornati alla situazione precedente, come se non fosse accaduto nulla».

  • I problemi non sono solamente all’esterno, ma ce ne sono anche di insiti nella categoria.

«Vero, un altro problema serissimo è l’importanza ormai predominante delle metriche. I giovani ricercatori in Italia vengono valutati in base al numero di lavori pubblicati e di citazioni ricevute. In termini assoluti non è sbagliata come cosa, ma c’è il concreto rischio di un appiattimento solamente su questo, e non va affatto bene. Gli H-index possono essere gonfiati, aggirandoli con neanche troppo complessi sistemi di auto-citazionismo ad esempio. Da un lato sono dell’idea che questi indici abbiano fatto un po’ di pulizia, ma bisogna evitare che diventino una franca ossessione: seppur abbiano contribuito a scremare una porzione di raccomandati “impresentabili”, talvolta diventano dei meri trofei di caccia».

«Tutto il sistema di publishing si sta calando su questa visione. Infatti, sono comparse riviste para-predatorie che “sfruttano” i ricercatori alla ricerca di questi meri numeri. Non sono il solo a pensarlo all’interno della comunità scientifica: bisogna staccarsi dall’ossessione delle cifre. In alcuni Paesi europei, come l’Olanda, le metriche come strumento di valutazione della qualità di un ricercatore sono state molto ridimensionate, anzi chi le porta come vanto rischia una sorta di “penalizzazione” nella valutazione. Non dico che là facciano bene ad eliminarle in toto e qua male a pensare solo a quelle, ma la reale qualità di un ricercatore non si può valutare esclusivamente in questo modo».

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