La professione infermieristica sta vivendo un momento particolare: cresce l’autorevolezza del ruolo basata sulle competenze e la formazione universitaria, ma diminuiscono “le vocazioni”, perché la carriera, in Italia, non è più attrattiva. “La ragione di questa apparente contraddizione – riferisce la Professoressa Teresa Rea, Presidente dell’Ordine e Professioni Infermieristiche di Napoli – è nelle condizioni specifiche del panorama sanitario italiano”.
“Stiamo vivendo un periodo di carenza strutturale di infermieri ed uno scorso riconoscimento del ruolo, che rende sempre più difficile soddisfare il fabbisogno. Inoltre, questa carenza determina l’insorgenza di burn-out e aumenta ulteriormente l’idea di studiare in Italia per poi trasferissiall’estero. Un paradosso – continua la Prof.ssa Rea – soprattutto perchè l’Europa considera il nostro sistema formativo come un modello di eccellenza, mentre nostri infermieri scelgono di lavorare all’estero, perché il nostro Paese – che li ha formati – non è in grado di valorizzare loro professionalità né economicamente né dal punto di vista professionale”.
L’ingrediente che non può mancare: l’umanità

“Gli infermieri, spesso vengono gestiti come risorse funzionali, soggetti a continui trasferimenti tra reparti per far fronte a situazioni emergenziali, senza considerare le loro competenze ed esperienze pregresse, sia formative che professionali. Gli infermieri sono innanzitutto persone le cui competenze, non possono essere disgiunte dalla dimensione umana”.
“L’umanità rappresenta un elemento fondante della professione infermieristica, in quanto costituisce il presupposto essenziale per l’instaurarsi di una relazione di cura autentica con la persona assistita e i suoi familiari. Tuttavia, tale dimensione si traduce anche in un costo personale elevato per gli infermieri, i quali si trovano spesso a dover sacrificare la propria vita privata e le relazioni familiari per far fronte a turni di lavoro sempre più onerosi. A ciò si somma l’incremento delle situazioni di tensione, con episodi di aggressioni fisiche e verbali da parte di cittadini sempre più sfiduciati e prevenuti nei confronti del sistema sanitario.”
“In questo contesto, risulta comprensibile la scelta di migrare verso Paesi che offrono condizioni lavorative più favorevoli, caratterizzate da una retribuzione più adeguata, un maggiore riconoscimento professionale e una più chiara organizzazione dei turni, che consente un miglior equilibrio tra vita lavorativa e personale.”
Invertire la tendenza: riconoscere le specializzazioni
“Uno snodo che permette di affrontare sia il deficit materiale che emotivo è quello di incidere suimodelli organizzativi che vanno cambiati per adattarsi alla crescita formativa e valorizzare le competenze specialistiche degli infermieri. Di fatto, la professione è cambiata molto negli ultimi anni. Un esempio emblematico è rappresentato dal ruolo sempre più rilevante dell’infermiere case manager, dell’infermiere di famiglia e di comunità che funge da collante tra specialisti e famiglie, oppure tra le persone – soprattutto quelle in condizioni di fragilità – e le tecnologie sanitarie, facilitando l’accesso, la comprensione e la continuità delle cure.”
“Il sistema sanitario, tuttavia, non ha ancora adeguatamente risposto all’evoluzione delle competenze infermieristiche, continuando a trattare gli infermieri come una categoria omogenea, senza distinzione di formazione o specializzazione. Appare dunque necessario proseguire nel potenziamento dei percorsi formativi specialistici, come le lauree magistrali in scienze infermieristiche ad indirizzo clinico, nell’ampliamento delle figure di supporto sotto la responsabilità dell’infermiere e nel riconoscimento economico proporzionato al livello di specializzazione acquisito.”
Una strada sostenibile?
Il Servizio Sanitario Nazionale è fragile, soprattutto sotto il profilo economico. Tuttavia, investire nel riconoscimento della professionalità e nelle specializzazioni degli infermieri risulta fondamentale per spezzare il circolo vizioso costituito da dequalificazione, sovraccarico lavorativo, burn-out ed emigrazione professionale, fenomeni che minacciano in modo significativo la sostenibilità e la continuità dell’assistenza “.
“I giovani che formo all’Università scelgono questa professione con grande entusiasmo e come prima scelta; ma dopo pochi anni si rendono conto di quanto frustrante possa essere l’esperienza reale con tutte le sue limitazioni e rigidità. Il SSN non può permettersi di perdere quest’entusiasmo. Riportare la persona al centro della Sanità significa considerare non solo l’umanità del paziente ma anche dell’operatore e la forza preziosa della loro relazione che è alla base della cura”.