La preparazione atletica nello sport professionistico è una delle componenti più complesse e decisive per il rendimento di una squadra e il basket non è da meno. Dietro ogni prestazione c’è un lavoro scientifico e costante che intreccia aspetti fisici, mentali e organizzativi. Ogni stagione sportiva impone ritmi serrati, con partite settimanali e, specialmente per chi compete anche a livello internazionale, impegni ravvicinati che rendono fondamentale una gestione meticolosa dei carichi di lavoro, del recupero e della prevenzione degli infortuni.
Per approfondire queste dinamiche abbiamo intervistato Leonardo Ambrosi, preparatore atletico della General Contractor Jesi, squadra che milita in Serie B Nazionale. Ambrosi, con esperienza sia nel settore giovanile e che nelle prime squadre, che ci ha spiegato come cambia la programmazione nel corso della stagione, quali sono le differenze rispetto ad altri sport e come muta l’approccio del preparatore fra settore giovanile e prima squadra.
Innanzitutto: quali sono le principali differenze nella preparazione atletica del basket rispetto a quella degli altri sport?
«La preparazione atletica varia tantissimo da sport in sport, soprattutto fra sport individuali e di squadra. La cosa che cambia maggiormente è la programmazione, perché negli sport di squadra avvengono tanti eventi ripetuti in brevi spazi di tempo e quindi ogni fine settimana giochiamo una partita. Inoltre, chi partecipa a competizioni internazionali poi si ritrova a dover giocare anche gli infrasettimanali quindi diventa di più una questione di gestione, soprattutto ad alti livelli. In sport che hanno il campionato devi essere sempre pronto da quando questo comincia, mentre negli sport individuali hai la fortuna di poter avere delle finestre in cui si riesce a programmare meglio per la gara di riferimento. Ad esempio: per un centometrista l’evento clou sono le Olimpiadi e pianifica la propria preparazione atletica di conseguenza. Ovviamente partecipa anche ad altre competizioni come i campionati italiani, ma la sua programmazione avviene su un arco di quattro anni».
«Oltre a questo, c’è la specificità dello sport. Può stupire il fatto che molti sport, indipendentemente dal livello a cui sono praticati, sono simili nell’utilizzo dei sistemi energetici, variando poi nei movimenti specifici. La pallacanestro, come il calcetto, è uno sport che alterna moto aerobico e anaerobico in maniera specifica con prevalenza delle ultime. Nel calcetto utilizzano i piedi mentre noi le mani e quindi i movimenti che vengono fatti in campo non sono gli stessi, ma la grande differenza sta qua essenzialmente. A livello metabolico in realtà siamo sempre nell’alternanza fra anaerobico e aerobico, perché ci sono tanti movimenti veloci ripetuti per tanto tempo in piccoli spazi».
Ha detto che la preparazione cambia in base agli impegni, ma in una stagione come quella del basket che ha il proprio fulcro alla fine dell’anno con i play-off o i play-out immagino che la pianificazione sia finalizzata ad avere il picco di prestazione ad aprile e non a novembre perché non si può mantenere il picco durante tutto l’arco della stagione, giusto?
«Esatto: è impossibile mantenere un picco elevato durante tutta la stagione. Anche le squadre che hanno a disposizione tantissimi soldi e si comprano i migliori giocatori a livello atletico avranno dei momenti di picco e dei momenti di deficitari. Come ha evidenziato, negli sport di squadra ci sono dei momenti cardini della stagione e le dirigenze andare a considerare queste cose. Non si può andare a vedere solo la singola settimana, indipendentemente che l’obiettivo sia vincere un campionato, arrivare ai play-off o provare a salvarsi».

«Nel momento in cui si crea la programmazione annuale, si va a spezzettare la stagione in periodi dove si può caricare un po’ di più e altri in cui c’è maggiore scarico. In periodi con un’alta frequenza di partite difficilmente si riesce a chiedere al giocatore di caricare di più in allenamento, perché si rischia l’overtraining e di conseguenza un infortunio. Per fare un esempio pratico: se il mio obiettivo è quello di vincere il campionato e sono già sicuro del mio posto ai play-off tenderò a non considerare di vincere le ultime partite di campionato, ma di aumentare il carico d’allenamento raggiungere un nuovo picco proprio nella fase di play-off».
Mi viene in mente il caso della Virtus Bologna che la stagione scorsa a fine marzo ha ottenuto un bilancio di 8 sconfitte in 10 gare per poi dominare i play-off scudetto.
«Esattamente. Chi non è del settore molte volte vedendo questa flessione può pensare che l’allenatore stia sbagliando qualcosa, che il preparatore abbia sbagliato a inizio dell’anno o addirittura che i giocatori non abbiano ricevuto il pagamento contestando la società. Invece, in realtà è con tutta probabilità la conseguenza di una decisione ponderata dello staff della squadra finalizzata ad avere successivamente un vantaggio competitivo».
«Per rimanere nell’esempio della Virtus Bologna: un giocatore come Daniel Hackett, a cui a livello tecnico vanno solo battute le mani, ormai ha raggiunto una certa età quindi il suo fisico va gestito. Non ci si può permettere di portare un giocatore del genere in fasi determinanti del campionato con acciacchi muscolari o con infortuni: deve essere in grado di esprimere la sua migliore pallacanestro. Il lavoro che uno staff tecnico deve fare è soprattutto quelli di permettere ai giocatori di pensare solo a giocare quando entrano in campo. Non devono pensare al dolore muscolare o al fastidio, perché per rendere al meglio devono tranquilli.
Prima ha nominato il fatto che si spezzetta la stagione in periodi dal maggiore e dal minor carico: solitamente da quanti di questi periodi è composta una stagione?
«È difficile rispondere a questa domanda perché la programmazione annuale viene continuamente rivista in base al momento della squadra, agli infortuni etc. Facendo un confronto con gli sport nei quali si riesce a fare una programmazione lineare “in blocchi” diciamo, se nella prima settimana viene effettuato un carico in quella successiva questo verrà alzato un po’ fino alla quarta nella quale verrà fatto lo scarico. Successivamente, alla quinta settimana riprendo con un carico leggermente maggiore rispetto alla prima della serie precedente ricominciando il ciclo d’allenamento. In questo modo ho un carico che aumenta in maniera lineare e l’atleta ha un adattamento lineare allo stesso modo».
«Però, nel nostro caso, avremo otto turni infrasettimanali che romperanno questo circolo virtuoso. Un match nel mercoledì richiede di cambiare la progettazione di blocco lineare perché provare a caricare durante una settimana con un turno infrasettimanale è un rischio. Perciò andiamo a studiarci il campionato sulla carta, ma può succedere di riprogrammare ogni settimana ciò che abbiamo pensato in base ad andamento della squadra, infortuni, avversari che si andranno a incontrare e così via. Magari a inizio anno avevamo pensato di caricare nella settimana in cui incontravamo una squadra di fascia bassa che però ora è diventata nostra diretta contender. In questo caso come staff dobbiamo uscire con un nuovo piano di lavoro, perché se prima pensavamo di caricare durante la settimana un titolare e farlo riposare alla partita ora non ce lo possiamo più permettere. Perciò, ricapitolando, c’è una macro-programmazione che poi viene costantemente rivista e adattata alla settimana».
Nel momento in cui si va a riprogrammare il piano d’allenamento che dati si vanno a guardare?
«Innanzitutto, il minutaggio in campo dei vari giocatori, poi si guarda ovviamente anche alla loro età. Per i giocatori anziani stare sempre 30 minuti sul parquet è un sovraccarico che, se si accumula nel tempo, comporta un innalzamento del rischio di infortunio. La cosa più importante è avere sott’occhio il monitoraggio del carico. È molto importante proporre questionari con cui capire il carico interno del giocatore. Per noi preparatori è importante perché poi andiamo dall’allenatore e segnaliamo che il giocatore X rischia di infortunarsi perché sono due o tre settimane che sta caricando molto e quindi consigliamo di dargli un giorno di scarico o diminuire il suo minutaggio durante la partita per l’infortunio. L’infortunio però ovviamente non puoi prevederlo con certezza, anche perché oltre a quelli muscolari negli sport di contatto o semi-contatto c’è la possibilità di traumi. Una scavigliata mentre vai a rimbalzo non la puoi prevedere».
Quali sono gli strumenti che vengono utilizzati nella programmazione e valutazione degli allenamenti?
«Se c’è un budget elevato si utilizzano molto spesso attrezzature con i GPS che raccolgono tantissimi dati. Questi strumenti registrano i cambi di direzioni effettuati, i salti, la frequenza cardiaca e così via e, successivamente, con un algoritmo calcolano il carico interno del giocatore dal quale parto per ridisegnare la programmazione degli allenamenti».
«Con budget più contenuti viene utilizzato l’RP: il Rate of Perception, che consiste in una scala di Borg. È molto utile perché messo insieme al minutaggio di ogni esercitazione dell’allenamento e a quello della partita permette di comprendere il carico di stanchezza percepita dal giocatore. Ovviamente, siccome ha un approccio manuale basandosi sull’osservazione diretta è un po’ più impreciso rispetto a un device tecnologico, ma rimane comunque uno strumento utile e tutto sommato attendibile».
Ha nominato più volte il “carico interno” dei giocatori: cos’è?
«Nel momento in cui buttiamo giù la programmazione dobbiamo tenere sempre in conto di due fattori: il carico esterno e il carico interno. Il carico esterno, molto semplicemente, è il numero di ripetizioni delle serie e i chili che facciamo spostare un giocatore quando sta in palestra. È sempre molto facile da prevedere, programmare e standardizzare perché lo diamo noi agli atleti».
«Il carico interno, invece, consta di quella parte che va a creare uno stress interno del corpo. Sto parlando di tutte le variazioni fisiologiche come il saliscendi del battito cardiaco o la pressione sanguigna e, di conseguenza, è molto più difficile da monitorare. Nel momento in cui il carico interno è eccessivo significa che stiamo andando in overtraining».
Quanto incidono sonno, alimentazione e recupero attivo nella prestazione finale?
«Queste sono tutte componenti importantissime che vanno a migliorare il recupero di un atleta. Se un atleta durante la notte non riesce a dormire a sufficienza e a mantenere a lungo il sonno profondo, al risveglio avvertirà ancora tutta la stanchezza accumulata il giorno precedente. Se mangiamo male non immettiamo nel nostro corpo tutto il nostro fabbisogno giornaliero di calorie e proteine e così via. L‘alimentazione non può essere una cosa standard per tutti, perché ognuno ha il proprio corpo. Di conseguenza è importantissimo affidarsi a un nutrizionista, che è l’unico che può calcolare bene qual è il proprio quantitativo di reintegro con proteine e creatina. Queste son tutte sostanze che uno sportivo professionista consuma tantissimo per un recupero più veloce, accompagnate ovviamente da una corretta alimentazione».
Ci sono delle nuove tendenze che stanno emergendo nella preparazione atletica del basket?
«Più che di tendenze parlerei di scuole di pensiero e ne esistono due: fare due allenamenti al giorno o uno solo che abbia sia la parte con il preparatore in palestra che quella tecnico-tattica in campo. Con la seconda si ha un’intensità minore nell’allenamento ma un carico maggiore e lascia più tempo libero ai giocatori durante la giornata. Tendenzialmente i giocatori recuperano meglio se tendenzialmente c’è un allenamento al giorno, questo perché negli spazi liberi della giornata si riesce meglio a programmare tutte le varie fasi che compongono la fase di recupero come andare dal fisioterapista, fare lo scarico in acqua e così via».
«È anche vero che molto spesso questa scelta è un’utopia, cioè non sempre si riesce a organizzare tutto questo perché le stagioni sono sempre più ricche di partite e poi più si scende di categoria più ci sono anche mere problematiche di disponibilità delle palestre. Io non disdegno neanche il lavoro spezzato. È vero che richiede al giocatore un maggiore dispendio energetico nel dover venire due volte a fare l’allenamento, però il carico lo gestiamo noi dello staff. Se ne fai uno al giorno, invece, puoi permetterti di caricare di più avendo dato più tempo di recupero al giocatore».
Dalle risposte deduco che lei faccia parte della scuola di pensiero di coloro che preferibilmente fanno un solo allenamento però completo e dal carico più alto.
«A livello scientifico sì perché è stato provato che i giocatori recuperano leggermente meglio, ma in realtà non sempre riesco ad applicarla. Con il settore giovanile sì, ma con la prima squadra invece no e abbiamo due allenamenti al giorno separati. Il trucco in questo caso sta nel modulare bene i carichi: l’allenamento mattutino è di sala pesi con sessioni di tiro e perciò il carico di lavoro è alternato. Ovviamente quando siamo in sala pesi voglio che i ragazzi spingano anche perché è una forma di prevenzione importante, ma il tutto è bilanciato per far sì che stiano bene anche per l’allenamento serale e non finiscano in overtraining. Ovviamente però, sempre andando a modulare i carichi, perché poi dopo la sera».
Parliamo di overtraining: come lo si può prevenire?
«Ci ricolleghiamo un po’ a quello che dicevamo prima, ovvero l’importanza del monitoraggio del carico. Ai giocatori non si può chiedere di spingere sempre alla loro massima intensità. Per arrivare al meglio alla partita della domenica è necessario che il giocatore faccia lavoro di scarico durante la settimana ma ripeto non si tratta solo di quanto gli carichi il bilanciere: bisogna guardare come sono andate le fasi di recupero attivo, il sonno e tante altre variabili per cui il canale di dialogo con il giocatore è sempre attivo. Si tratta di un lavoro variegato».
Lavoro che si fatica a fare anche ai massimi livelli però visto l’aumento di infortuni in NBA, fra cui le sempre più frequenti lesioni al tendine d’Achille che solo nell’ultima stagione ha colpito star come Haliburton, Lillard e Tatum.
«La problematica del tendine d’Achille è sorta tantissimo a seguito del Covid perché a causa del periodo di fermo che questo ha imposto ne è conseguita una fase di de-atletizzazione che ha aumentato i rischi di infortunarsi. Nella pallacanestro solitamente gli infortuni più comuni sono le distorsioni di caviglia e la rottura del legamento crociato anteriore. Sul perché c’è stato un aumento così marcato negli infortuni al tendine d’Achille non so dire con certezza, andrebbe fatta un po’ di ricerca scientifica. Potrebbe essere dovuto a un’evoluzione fisica del basket che sta portando a tantissimi contatti; infatti, ci sono più salti e sprint rispetto a prima, e predilige sempre di più giocatori atletici. Ormai è difficile trovare qualcuno in NBA, ma anche nel resto del mondo, che non riesca a schiacciare».
«Non credo ci sia poca attenzione nei confronti dell’overtraining perché lì i controlli sono veramente capillari e non lasciano davvero nulla al caso. I fattori dell’infortunio sono sempre molteplici e interconnessi, è difficile trovare un solo motivo per cui quell’atleta si sia infortunato. Poi in NBA c’è anche il discorso del fatto che giocano 82 partite più tutte quelle che di play-in e play-off. Di conseguenza, Haliburton che arriva fino a gara 7 delle Finals puoi immaginare che sia arrivato alla fine del serbatoio, tuttavia peccherei di presunzione se ti dicessi che quello è il vero motivo dell’aumento nell’incidenza degli infortuni».
E non accade che le squadre per avere picco di prestazione ancora migliore accettino un minimo di overtraining?
«No, questa tipo di trade-off non avviene per due semplici motivi. Se una volta si poteva spingere il giocatore a giocare sul dolore (a meno che non sia l’ultima partita della stagione come il caso di Haliburton) oggi non lo si fa più perché c’è troppa attenzione a prevenire il problema. Siccome è troppo diverso avere un giocatore in forma rispetto a uno a metà ormai lo si aspetta fino a che non sta bene davvero prima di schierarlo. Forzandolo si rischierebbe un nuovo infortunio e anzi oggi il ragionamento è quello opposto: un giocatore è più performante se sta bene e quindi gli si dà il tempo di cui ha bisogno per recuperare a dovere».
Come cambia la preparazione atletica fra la giovanile e la prima squadra?
«Il punto sta nel fine. Le prime squadre, prime squadre devono vincere, stop. Se una prima squadra non vince ne consegue un problema economico, un problema societario, un problema proprio di fondo perché quello lì è l’obiettivo. Per questo motivo nella prima squadra la preparazione più improntata su una gestione del carico e sul mantenimento della prestazione dei ragazzi. Ciò avviene anche perché chi arriva in prima squadra è già atleta quindi non gli devi “costruire” il corpo, ma pensare di farglielo rendere al meglio».
«Nel giovane atleta, invece, si parla di tutt’altra cosa: lì non pensi al campionato ma al suo sviluppo. Infatti, il lavoro che molto spesso viene intavolato per questi ragazzi è pluriennale. Poi devo ammettere che sono molto fortunato a trovare allenatori e dirigenti che abbiano questa visione a lungo termine e non mi chiedano che l’under 16 sia massiccio quanto l’under 18, perché questo non sarebbe uno sviluppo sano dell’atleta e del suo corpo. La partita della domenica non deve essere il fine del lavoro del settore giovanile: lo sono il costruire il giocatore e la sua fame. Ovviamente la vittoria della domenica è positiva e crea entusiasmo, ma serve per fargli venire voglia ad andare in palestra e a lavorare sempre di più».
«Fra le due situazioni cambia anche la mole di lavoro. In una prima squadra solitamente si va in sala pesi due volte a settimana; nel settore giovanile, invece, quasi tutti gli allenamenti sono pallacanestro e sala pesi, sala pesi e pallacanestro. Un ragazzo che va gestito e perciò il suo allenamento è improntato sul miglioramento personale più che di conquista della gara del fine settimana. Stessa cosa vale per gli allenatori che si concentrano sulle situazioni di gioco più che sul punteggio finale».
