Brain fog: affrontare il danno collaterale della radioterapia oncologica

I modelli in vitro 3D e i micro-tessuti cerebrali aiuteranno a proteggere il cervello dagli effetti indesiderati del trattamento. Articolo di Noemi Marino, Ricercatrice biomedica IRCCS-IRST, Dottoranda DIBINEM Università di Bologna e membro dell’associazione internazionale BraYn

Il paradosso della cura

La radioterapia è una tecnica terapeutica salvavita essenziale nel trattamento dei tumori cerebrali e delle metastasi. Il suo obiettivo è distruggere le cellule tumorali, ma spesso comporta un inevitabile “danno collaterale”. Tra gli effetti troviamo: deterioramento della memoria, ridotta velocità di processazione delle informazioni, ma anche deficit motori e di coordinamento. L’estensione del danno da radiazione dipende da diversi fattori, quali l’età del paziente, la dose totale di radiazioni somministrata, il numero di frazionamenti e la dimensione del campo irradiato, ma anche dalla combinazione con chemioterapici, come spesso accade nei pazienti di tumori cerebrali, che possono inevitabilmente peggiorare questi effetti dannosi, anche a lungo termine.

La sfida della Nebbia Cognitiva (Brain fog)

Questi deficit cognitivi sono a volte definiti con il termine inglese “brain fog”, o nebbia cognitiva. Ma da cosa deriva, quindi, il danno funzionale che si osserva? La risposta non è immediata, tanto che i ricercatori nel campo delle neuroscienze stanno dibattendo molto sull’argomento. Si ipotizza si tratti di una risposta complessa che comprende svariati processi cellulari e molecolari, dalla neuroinfiammazione alla neurodegenerazione, passando per lo stress ossidativo. Ciò che è certo e assodato è che quello che si viene a creare nei pazienti sottoposti a radioterapia, è un vero e proprio circolo vizioso, che una volta innescato continua ad autoalimentarsi.

Ma come uscire da questo loop? Studiare in modo efficace e rapido il modo migliore per distruggere le cellule tumorali proteggendo al tempo stesso le delicate strutture cerebrali, come l’ippocampo, è indispensabile per fare passi avanti e dare ai pazienti oncologici una migliore qualità di vita. Per farlo, ci vengono in aiuto diversi modelli biologici avanzati.

Il ruolo della ricerca: chip e organoidi per testare composti neuroprotettivi

La ricercatrice Noemi Marino

Nonostante i progressi fatti nella comprensione dei meccanismi dello sviluppo cerebrale e della neurogenesi, i modelli 2D, seppur veloci ed economici da sviluppare, portano con sé diverse limitazioni rispetto alla situazione che si presenta nell’uomo: differente morfologia, mancanza dell’architettura tipica del tessuto cerebrale, impossibilità di interagire con diverse popolazioni cellulari. La mancanza di un intricato sistema che rappresenti il microambiente tumorale nei modelli bidimensionali ha portato gli scienziati a cercare nuove tecnologie, come le neurosfere 3D, che contengono diversi stadi di differenziamento neuronale al loro interno.

Purtroppo, anche queste mancano della complessità e dell’organizzazione tipici del cervello umano. Negli ultimi anni, però, sono stati sviluppati gli organoidi cerebrali, differenziati dalle cellule staminali embrionali umane, o cellule pluripotenti, che, quindi, sono in grado di differenziare in diversi tipi cellulari a seconda della guida del ricercatore. Questi organoidi 3D sono strutture in grado di organizzarsi spontaneamente e possono svilupparsi in regioni cerebrali differenti, contenendo diversi tipi cellulari.

Pregi e limiti dei modelli in vitro 3D

I ricercatori sono stati anche in grado di dimostrare l’incorporazione, all’interno di questi organoidi, della microglia, l’insieme delle cellule che costituiscono il principale sistema di difesa immunitaria del cervello. Queste cellule sono tra le prime a rispondere agli stimoli stressogeni esterni, come la radioterapia, creando una risposta infiammatoria. Questi modelli, seppur utili e promettenti, mancano di alcune strutture indispensabili per rappresentare la complessità del nostro cervello, come cellule endoteliali e vasi sanguigni. Inoltre, un’ulteriore limitazione è rappresentata dalla difficoltà nel riprodurre in maniera standardizzata questi modelli. 

Come fare a studiare un altro aspetto fondamentale del cervello, ovvero la sua attività elettrica?

Un modello molto interessante è rappresentato dai Brain-on-a-Chip. Si tratta di sistemi biomimetici microfluidici (piccoli chip di plastica o vetro) che ospitano micro-tessuti cerebrali. Hanno il vantaggio di permettere di controllare e studiare con precisione il microambiente, l’interfaccia tra due tessuti, inclusi il flusso di liquidi (simulando il liquido cerebrospinale) nonché l’interazione tra diverse popolazioni cellulari, come microglia e neuroni. Inoltre, questi modelli 3D permettono di applicare dosi di radiazione precise e di monitorare in tempo reale meccanismi fondamentali come la morte cellulare, l’attivazione delle cellule infiammatorie e anche i tentativi delle cellule tumorali di riparare i danni al DNA indotti dalla radioterapia, migliorando anche la riproducibilità. Possono inoltre essere utilizzati come piattaforma di screening di farmaci, diminuendo così il numero di animali utilizzati in step successivi della ricerca, e ad oggi ancora necessari.

Il futuro della neuro-oncologia di precisione

Questi modelli, a seguito di irradiamento, possono svelare i meccanismi dietro al cosiddetto brain fog, ma anche permettere di testare in maniera preliminare delle possibili strategie terapeutiche, affinché la vita dei pazienti oncologici sottoposti a trattamento abbia una qualità degna. In particolare, chip e organoidi sono piattaforme ideali per testare su larga scala composti neuroprotettivi e antinfiammatori, per valutare la loro capacità di bloccare l’attività promotrice della progressione del tumore, e salvare i neuroni e le funzionalità che ne derivano.

I modelli 3D non sono solo strumenti di laboratorio, sono veri e propri acceleratori nella ricerca della neuroprotezione e della medicina di precisione. In futuro, questi modelli potrebbero essere sviluppati utilizzando cellule del paziente stesso (modelli patient-derived), permettendo di personalizzare le terapie e la neuroprotezione per ciascuno, minimizzando il rischio di nebbia cognitiva. La tecnologia ci sta dando gli strumenti per rendere le cure oncologiche non solo più efficaci, ma anche più umane, preservando la qualità di vita dei sopravvissuti.

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di Redazione Bees Sanità
21 Novembre, 2025

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