La Dott.ssa Marina Petrini ha coordinato le ultime ricerche dell’Istituto Superiore di Sanità sul tema della salute genere specifica nei caregiver familiari. Questi costituiscono il primo presidio assistenziale per le persone non autosufficienti. Nonostante ciò, i caregiver non vengono sostenuti a dovere. La mancanza di questa rete di supporto aggrava ulteriormente il già gravoso stress dovuto a questa usurante attività di cura.
Dott.ssa Petrini, qual è il valore della figura dei caregiver in un paese come il nostro dove gli over 65 sono 14 milioni e mezzo, praticamente un abitante su quattro?
«Il suo valore è fondamentale perché è la persona in famiglia che si occupa, spesso a tempo pieno se non addirittura h24, di un familiare che non è autosufficiente. Al caregiver familiare va quindi riconosciuto un vero e proprio valore economico e sociale perché contribuisce al welfare del paese: permette che il familiare non autosufficiente possa rimanere nella sua casa e non essere ricoverato in un istituto di cura».
«Per tutti questi motivi la figura del caregiver deve avere un riconoscimento giuridico e il suo ruolo deve essere valorizzato. I caregiver in Italia stanno aspettando da molti anni una legge nazionale che in questo momento è in discussione al Parlamento. Ci sono varie bozze di legge, ma ancora non un accordo di sintesi. Al momento il ruolo è riconosciuto solamente da alcune Regioni, che si sono dotate di una legge o norma regionale. La prima a farlo è stata l’Emilia-Romagna con una legge nel 2014, ma poi c’è stato un vuoto. Fortunatamente negli ultimi anni molte regioni italiane si sono dotate di una legge, fra cui il Lazio e la Toscana. Questo perché? Perché nella legge finanziaria N. 205 del 2017 (comma 255) è stato definito per la prima volta chi è il caregiver familiare ed è stata prevista una dotazione finanziaria per supportarlo (comma 254)».
Qual è stato quindi l’effetto sulla categoria dei caregiver di questo riconoscimento giuridico?
«Questa prima definizione non è un riconoscimento a livello nazionale. Però ha permesso al caregiver familiare di uscire fuori dall’anonimato e di reclamare un valore sociale e anche economico. Prima si pensava che l’attività di cura fosse una responsabilità solo personale. Invece, questo riconoscimento, prima dell’Emilia-Romagna e poi della legge di bilancio 205/2017, ha fatto sì che nascesse una nuova consapevolezza, sia nei caregiver stessi che nella comunità. Ciò permette loro di richiedere alcuni benefici e supporti e avere un ruolo nelle decisioni di cura della persona non autosufficiente. Precedentemente il caregiver aveva un ruolo meramente passivo. Ora, invece, deve essere sempre preso in considerazione quale interlocutore delle istituzioni sociosanitarie ai fini della presa in carico del familiare assistito».
«Purtroppo, tutto ciò ancora non basta, ecco perché è urgente la legge nazionale che sola può garantire azioni di supporto uniformi per tutte le regioni italiane ed efficaci mediante un fondo adeguato. I caregiver chiedono anche il riconoscimento dei propri diritti al riposo e al supporto nella conciliazione lavoro e cura. Pensiamo a una mamma con un figlio con disabilità alla nascita che è costretta a lasciare o rinunciare al lavoro per occuparsi del figlio h24 o una donna che non riesce a rientrare nel mondo del lavoro dopo che ha smesso di essere caregiver a tempo pieno: la vita in questi casi si blocca, insieme anche a un processo di realizzazione personale. Allo stesso tempo, è estremamente difficile conciliare il lavoro di cura con gli impegni lavorativi: non dobbiamo lasciare che i caregiver debbano sacrificare tutta la loro vita e la loro libertà. I caregiver familiari vanno supportati sia nella scelta di continuare a lavorare che in quella di dedicarsi soltanto alla cura, purché la scelta sia libera e non condizionata dall’ambiente».
Ha fatto l’esempio di un caregiver donna perché purtroppo c’è un identikit nella figura di caregiver familiare, giusto?
«Ebbene sì. In Italia, come nel resto del mondo d’altronde, è prevalentemente la componente femminile a occuparsi delle attività di cura. La percentuale è più alta in Italia, come in altri paesi dell’Europa del sud come Spagna e Grecia. In parte è dovuto al modello tradizionale di famiglia comune in questi paesi».
«Ora le cose stanno lentamente migliorando: anche l’uomo sta cominciando a entrare nel mondo della responsabilità della cura, nonostante la differenza sia ancora abissale. Il campione dei caregiver che ha risposto al nostro questionario è composto per l 80% di donne e per il 20% di uomini. Questa differenza si ripercuote sulla percentuale di occupazione che vede le donne essere svantaggiate rispetto agli uomini in quanto meno occupate o che hanno dovuto lasciare il lavoro per dedicarsi alla cura, nonostante abbiano un livello di istruzione più alto. Ciò comporta anche uno svantaggio economico dovuto alla minore capacità di reddito.
Quali sono i rischi che i caregiver corrono riguardo la propria salute?
«I caregiver essendo sottoposti a stress cronico dovuto all’elevato carico assistenziale, hanno in generale una salute peggiore rispetto ai non caregiver. La ricerca ha osservato molto questo fenomeno ma sono pochi gli studi rivolti a studiare l’impatto dello stress sulla salute genere specifica».
Anche l’ISS ha organizzato uno studio.
«Sì. Abbiamo iniziato con uno studio pilota limitato alla Regione Lazio e a due sole categorie di caregiver: caregiver di familiari con demenza o malattia di Alzheimer e caregiver di figli con disturbo del neurosviluppo, in particolare l’autismo. Abbiamo scelto queste due condizioni, perché sono entrambe ad alto carico assistenziale e per valerci nella fase di reclutamento della collaborazione di associazioni di familiari e centri medici. La modalità d’indagine ha previsto una somministrazione di un questionario anonimo. Ai caregiver familiari veniva richiesto di riportare i loro sintomi e problemi di salute dal momento in cui avevano iniziato l’’attività di cura, esponendosi quindi allo stress cronico».
«Abbiamo pubblicato i risultati dello studio pilota sulla rivista Journal of Sex and Gender Medicine. Già da questo primo studio ci siamo accorti che esistono delle differenze fra i sessi nell’accumulo dello stress dovuto al compito assistenziale. Perciò, abbiamo allargato il raggio dell’indagine avviando un questionario su tutto il territorio nazionale, ricorrendo nuovamente alle associazioni che ci avevano aiutato precedentemente e aggiungendone delle nuove. Abbiamo inoltre diffuso il progetto con un podcast sul sito dell’Istituto e fatto girare sui social per raggiungere il maggior numero di caregiver familiari possibile. Il ruolo delle associazioni è cruciale nel loro affiancamento ai caregiver, supportandoli con informazioni, servizi e progettualità,. Ci sono tuttavia caregiver che non riescono a chiedere aiuto non avendo una rete di supporto, finendo così per isolarsi. L’isolamento è un nemico che può aggravare lo stress. Per questo è necessario che le istituzioni sociosanitarie territoriali identifichino e supportino questi caregiver più a rischio di salute».
E in questa seconda indagine avete allargato anche il novero di caregiver?
«Sì: abbiamo allargato l’indagine ai caregiver che si prendono cura di persone con malattie rare, malattie del sistema nervoso, disturbi psichici e del comportamento, malattie endocrine, nutrizionali e metaboliche. Inoltre, abbiamo ampliato lo sguardo al contesto nazionale e aggiunto ulteriori quesiti per approfondire il tema della salute fisica: non abbiamo chiesto, come precedentemente, la presenza di disturbi di salute generici, ma di indicare le patologie croniche di cui il caregiver non soffriva in precedenza e il numero dei farmaci assunti per curarle, nonché domande riguardanti l’accesso alle cure».
«Abbiamo confermato i risultati dello studio pilota per quanto riguarda le differenze di salute genere specifiche e il fatto che agli alti livelli di stress sono associati a maggiori problemi di salute fisica, la novità è aver osservato che alcuni caregiver si ammalano mentre svolgono il ruolo di caregiver, più frequentemente le donne e tra queste anche le giovani donne cosa che non ci si aspetterebbe di trovare».
«In particolare, il 41% dei caregiver familiari riferiscono di avere avuto nuovi problemi di salute da quando sono diventati caregiver. Tra l’altro, la maggior parte di questi ha contratto due o più patologie, non una sola. In questo quadro, le donne se la passano peggio, ovvero sviluppano un numero maggiore di patologie rispetto agli uomini. Le patologie più diffuse sono le malattie psichiatriche e questo è un dato già noto, perché le malattie più diffuse nel caregiver sono appunto depressione, disturbi del sonno, ansia, insonnia e attacchi di panico. A seguire ci sono le malattie muscolo-scheletriche, disturbi gastrointestinali e le malattie cardiocircolatorie. In queste ultime c’è un’inversione di tendenza: ne soffrono di più i caregiver maschi, ma è comprensibile perché gli uomini sono maggiormente soggetti a questo tipo di patologie».
Il confronto con la popolazione generale
«In più, siamo andati a vedere se c’erano differenze dal confronto dei nostri dati con quelli dell’Istat che tracciano il quadro dello stato di salute della popolazione generale. Purtroppo, il confronto è stato possibile solo per il campione delle sole donne perché il campione dei soli uomini era troppo poco numeroso per una analisi statistica. Le future ricerche dovranno colmare questa lacuna. I dati ci dicono che le caregiver donne più giovani si ammalano di più rispetto alle loro coetanee. Sospettavamo anche questo perché ascoltando i caregiver in diversi contesti si veniva a conoscenza di questa realtà. Ma servivano i dati della ricerca che lo evidenziassero».
