«Fin dall’inizio del mio incarico ho notato un problema strutturale sempre più evidente: la scarsa attenzione verso le risorse umane» dichiara Luca Stucchi, Direttore Generale di ASST Lariana. L’azienda sanitaria comasca che conta 3.821 dipendenti e si estende sul vasto territorio di Como e provincia a due passi dal confine svizzero. «Negli ultimi anni – sottolinea – si è invertito il rapporto tra domanda e offerta di lavoro: oggi sono gli operatori sanitari a poter scegliere, mentre le strutture faticano a reperire personale. Un cambio di paradigma che ha messo in crisi il sistema sanitario».
Perché parla di scarsa attenzione alle risorse umane?
«Ci sono due cause principali: una programmazione nazionale assente da oltre 15 anni, che ha separato la gestione della rete sanitaria da quella del personale, e poi il Covid. La pandemia ha prima esaltato il ruolo della sanità pubblica, ma a pochi mesi dalla fine dell’emergenza è ripartita la narrazione negativa. Il DM 70 ha tentato di rimediare ma le Regioni lo hanno applicato in modo disomogeneo. Oggi servono tre azioni: puntare su digitalizzazione, potenziare il welfare aziendale e promuovere una nuova cultura organizzativa che metta davvero al centro le persone».
E le conseguenze quali sono?
«La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale possono offrire molto alla sanità, ma non dobbiamo dimenticare che il cuore del sistema restano le persone. Sono i professionisti a garantire un’assistenza di qualità e un rapporto di fiducia con i pazienti. Senza risorse umane adeguate, la presa in carico vera e completa non è possibile.Una situazione resa più complessa da una normativa ormai datata: non ci siamo ancora mossi dalla Legge 502 del 1992 per quanto riguarda l’aspetto organizzativo del sistema sanitario. I dipartimenti funzionano con logiche vecchie di oltre trent’anni, a questo si sommano contratti collettivi spesso rinnovati in ritardo e non pensati per agevolare l’inserimento di professionisti, soprattutto dal settore privato o dall’estero».
Allora dove si dirigono gli sforzi del legislatore?
«Si continua a intervenire sull’emergenza di turno, oggi le liste d’attesa, dimenticando i problemi strutturali del sistema. Le liste d’attesa sono solo un sintomo: le cause vere vanno ricercate nella mancata presa in carico dei pazienti, nell’appropriatezza delle cure o nel fenomeno della medicina difensiva. L’avvento della depenalizzazione può contribuire ad alleggerire la pressione, ma non basta. Serve una riforma profonda che guardi al lungo periodo e rimetta al centro la programmazione, le risorse umane e la qualità della relazione tra professionisti e paziente».
E gli sforzi dell’ASST Lariana invece dove si dirigono?
«In ASST Lariana stiamo lavorando per cambiare la cultura organizzativa sia dell’azienda che del territorio. Le riforme regionali, da Maroni a Moratti, puntano a una gestione integrata ospedale-territorio. Ma questo obiettivo è irraggiungibile senza un cambiamento culturale profondo che riguarda sia i professionisti che le persone. Il nodo è superare l’approccio ancora troppo centrato sull’ospedale. Fino alla legge regionale n. 23/2015 avevamo aziende ospedaliere separate dalle Asl. Ora, invece, servono percorsi condivisi. Se la narrazione continua ad essere quella per cui in presenza di un problema sanitario si va immediatamente in Pronto Soccorso, manteniamo una frattura che limita efficienza e qualità della presa in carico. Per far funzionare davvero l’integrazione è indispensabile il dialogo con medici di medicina generale, specialisti e ambulatoriali, che ora rientrano nell’universo ASST, pur con contratti diversi. Costruire questo dialogo è difficile, ma è l’unica strada per garantire una sanità sostenibile e centrata sul paziente».
E quindi i pazienti cosa si aspettano?
«Il paziente cerca soprattutto una risposta di presenza concreta. Per questo abbiamo attivato il numero unico di non emergenza 116117, che funziona bene nel mettere in contatto il cittadino con la rete territoriale. Tuttavia, da solo non basta: il paziente vuole vedere e interagire con qualcuno. In Liguria, ad esempio, gli ambulatori della continuità assistenziale, aperti anche nei weekend, offrono un’accoglienza più completa rispetto alla semplice visita di emergenza. Il problema è che, storicamente, ospedale e territorio sono stati due mondi separati, con modelli di lavoro distinti. Questo ha creato una sorta di frammentazione nella cura e nella relazione con il paziente, che in ospedale è ‘Rossi’ e sul territorio è ‘Mario’, quando in realtà è ‘Mario Rossi’. E noi lavoriamo proprio per superare questa divisione, un tema centrale nelle discussioni del Collegio di Direzione dell’Asst, che considero il cuore del confronto interno all’azienda».
Come può l’innovazione tecnologica contribuire a superare queste problematiche?
«L’innovazione tecnologica, come la digitalizzazione dei processi, è una leva importante, ma non è una soluzione immediata, né la bacchetta magica. Stiamo implementando la cartella clinica elettronica in Lombardia, ma serve una fase di sperimentazione in cui possono verificarsi rallentamenti e complicazioni. La tecnologia aiuta, ma solo se accompagnata da un cambiamento reale nel modello organizzativo».
Cosa serve per cambiare il modello organizzativo?
«Serve maggiore flessibilità, a partire dai contratti collettivi e da alcune norme sul pubblico impiego. Come ha detto recentemente il Ministro della Salute Schillaci, serve un contratto che riconosca la specificità dei lavoratori della sanità, diversi da quelli della pubblica amministrazione per tipologia del lavoro, non per competenza. Questo è un insegnamento importante emerso anche dall’esperienza Covid, durante la quale sono state necessarie norme speciali per affrontare la carenza di risorse. Altro punto cruciale è l’aspetto economico. Le retribuzioni nel nostro settore sono inferiori rispetto alla media europea e questo pesa sull’attrattività delle professioni sanitarie: di conseguenza molte università offrono più posti di quanti ne vengano effettivamente coperti».
«È necessario, dunque, non solo un aumento degli stanziamenti ma, come già ho detto, maggiore flessibilità lavorativa e un welfare aziendale più sviluppato. Il settore privato ha già fatto passi avanti significativi in questo senso, mentre nel pubblico siamo ancora indietro, soprattutto per la mancanza di fondi dedicati. Il welfare influenza il clima lavorativo e la percezione di riconoscimento, non solo economico, ma anche sociale, del lavoro dei professionisti della sanità».
Dove soffriamo maggiormente la bassa attrattività?
«I settori più carenti sono quelli dell’emergenza-urgenza, dove medici e infermieri spesso scelgono percorsi diversi. Questo conferma che la tecnologia da sola non basta. Applicarla a un modello organizzativo obsoleto è come mettere un bellissimo rattoppo su un vestito logoro, che rischia comunque di strapparsi. Perciò dobbiamo lavorare sia sulla tecnologia sia sul rafforzamento dell’organizzazione sanitaria a livello regionale e nazionale».
Precedentemente ha parlato anche di una necessità di cambiare la cultura, sia aziendale che territoriale. Perché?
«Il fatto che operatori di Pronto Soccorso, psichiatria o Sert debbano essere protetti da aggressioni di pazienti o familiari la dice lunga sulla cultura da migliorare nella popolazione. Investiamo molte risorse per garantire la loro sicurezza: più sorveglianza, il “bottone rosso” per allertare le Forze dell’Ordine e un presidio fisso della Polizia di Stato in ospedale. È un controsenso che chi è lì per salvare vite debba sentirsi minacciato. Per questo collaboriamo con ordini professionali, case di comunità e sindaci per promuovere rispetto e consapevolezza sul territorio».
In che modo state cercando di cambiare la cultura sanitaria?
«Ho affidato ai Direttori di Distretto il compito di mantenere un rapporto continuo con associazioni di volontariato, enti locali e cittadini, organizzando giornate di prevenzione e campagne di sensibilizzazione. L’obiettivo è uscire dalle mura degli ospedali e andare nelle piazze: anche quest’anno, il 4 ottobre, terremo a Como la seconda edizione di una giornata dedicata alla prevenzione per avvicinare i professionisti alla popolazione. Con le ATS, che in Lombardia coordinano progettazione e programmazione, puntiamo molto sulla prevenzione. Convincere la popolazione a partecipare agli screening gratuiti offerti dalla Regione è una sfida: non sono un optional, ma un dovere civico, perché una diagnosi precoce migliora i risultati delle cure».
«Sulla prevenzione serve un impegno particolare per coinvolgere soprattutto i giovani. Sembrano meno a rischio ma invece stanno affrontando un crescente disagio psicologico, spesso nascosto e quindi diagnosticato in ritardo. Per questo abbiamo avviato incontri nelle scuole e nei consultori, e a livello regionale è in corso una riorganizzazione della rete neuropsichiatrica. L’assessore al Welfare Bertolaso ha insistito parecchio su questo tema negli ultimi mesi. Occorre innanzitutto far comprendere ai giovani che la prevenzione è un’opportunità di benessere, non solo qualcosa di cui preoccuparsi quando si sta male».