Un «primo importante passo in avanti nella lotta contro l’utilizzo improprio degli psicologi nei procedimenti di famiglia»:è stata accolta così la notizia dell’interrogazione ai Ministri della Salute e della Giustizia dell’onorevole Luciano Ciocchetti (FdI) sull’utilizzo forzato ed improprio degli psicologi nei procedimenti di famiglia, legati all’art. 473-bis.27 c.p.c. «Una pratica da sempre presente – spiega Ivan Iacob, segretario generale nazionale dell’AUPI, Associazione Unitaria Psicologi Italiani – e che stava diventando un serio problema di etica e privacy».
«La psicoterapia non si può imporre»
«Per questa situazione, si potrebbe utilizzare come analogia la prescrizione impropria che viene usata in medicina – spiega Salvatore Guastella, Segretario Aupi Ragusa -. Nel mondo della salute, i dirigenti sanitari e gli psicologi assunti nel Servizio Sanitario Nazionale devono occuparsi di ambiti specifici, come le tossicodipendenze, i disturbi mentali, il lavoro nei consultori familiari: tutti aspetti che non prevedono la disponibilità nei confronti della magistratura, che è un ente completamente esterno al sistema sanitario. Non si può dire a un professionista di un altro ente cosa fare, solo perché si è magistrati. Certo, ogni cittadino ha diritto a essere curato, ma non è obbligato a curarsi. Non esiste nella storia della medicina che un magistrato abbia mai prescritto un intervento chirurgico al fegato: se una persona decide di operarsi, lo fa liberamente».
Secondo Guastella, invece, per quanto riguarda aree come quella della conflittualità genitoriale, «ci troviamo davanti a un paradosso: il magistrato obbliga il professionista sanitario a eseguire prestazioni terapeutiche, imponendo di fatto un trattamento obbligatorio all’utente. Questo inficia l’efficacia stessa del trattamento, che per funzionare richiede una libera adesione. Imporre la psicoterapia è un’azione impropria che crea false illusioni».
C’è poi un altro problema fondamentale: «Se il terapeuta è chiamato a fare una relazione sull’andamento del benessere del paziente, entra in un terreno imprevedibile – continua -. Gli psicologi non lavorano su dati certi. In medicina si può dire: prendi un antibiotico per sette giorni. In psicoterapia, magari dopo cento sedute non cambia nulla e poi alla centunesima cambia tutto. Il processo è lungo, serve tempo, e soprattutto un setting protetto, dove tutto è coperto da segreto professionale. Se devo fare una relazione al giudice, quella relazione entra nel fascicolo e diventa leggibile da chiunque abbia accesso al fascicolo giudiziario. Questo rappresenta una violazione del dato sanitario. E quando queste imposizioni psicoterapeutiche avvengono all’interno di situazioni già molto delicate, come quelle familiari, si crea un rischio enorme: che gli avvocati usino il materiale clinico per rafforzare la posizione dei propri assistiti. C’è il concreto pericolo che si estrapolino e decontestualizzino frasi da una relazione, con danni molto seri per l’utente».
«Con obbligo, non c’è cambiamento»
«Questa è una pratica che c’è sempre stata – così Ivan Iacob – ma che oggi sta diventando un serio problema. L’articolo 473 bis 27 ha la sfortuna che, nel tentativo di dare una risposta a una problematica quasi irrisolvibile, ovvero le liti di famiglia e le separazioni conflittuali, commette un grave errore: porta il sistema giudiziario all’interno del sistema sanitario. Questo comporta che tutte le azioni che vengono messe in atto diventano strumentali per la parte giuridica. Nessuno fa più un percorso perché è motivato al cambiamento, ma tutti lo fanno in funzione di quello che prescrivono i giudici».
«Il problema è che alcuni giudici, forti delle libertà offerte dall’articolo, trascendono e prescrivono trattamenti come se fossero prestazioni sanitarie vere e proprie: “vedi questa paziente tre volte a settimana”, “raggiungi questi obiettivi”, “tratta questa cosa in questo modo”. Ma un percorso di cambiamento implica la partecipazione attiva della persona. Se il paziente si presenta solo per “obbedire” al giudice, non cambia nulla. Viene, fa ciò che deve, e aspetta che il giudice lo lasci in pace».
«La psicoterapia non si prescrive – spiega Iacob -, non è una chemio. Deve esserci una condizione clinica e, soprattutto, la volontà del paziente. In un caso recente, un tribunale ha ordinato di aiutare una signora a “cambiare atteggiamento nei confronti del marito”. Ma se questa persona si vuole separare, qual è l’atteggiamento corretto? Così si è delegittimato il nostro lavoro e si è trasformato il consultorio in un luogo saturo di richieste improprie. Richieste che impediscono il lavoro vero: aiutare madri, coppie, adolescenti».
Una questione etica
«C’è anche una questione etica enorme – prosegue Iacob -. Il consenso del paziente è davvero libero, se sa che dal trattamento dipende la possibilità di vedere un figlio? Inoltre, è in corso una pericolosa tendenza: i giudici chiedono la cartella clinica completa, indiscriminatamente. Dentro ci può essere un aborto di dieci anni prima, una malattia sessualmente trasmissibile, questioni intime che nulla c’entrano col caso. Ma diventano pubbliche, passano agli avvocati. Ad esempio, ho sentito parlare in aula di aborti risalenti a dieci anni prima, portati dagli avvocati per “dimostrare” qualcosa. È inaccettabile».
Un tema sanitario o giuridico?
Secondo Iacob, «bisogna anche chiedersi: una lite è un problema sanitario o giuridico? L’aspetto psicologico entra solo nel momento della Consulenza Tecnica d’Ufficio, quando serve una valutazione. Ma non si può inviare sistematicamente tutte le persone ai servizi, come se questi fossero illimitati. I giudici chiedono relazioni in tre mesi, ignorano le liste d’attesa, la mancanza di personale, i turni scoperti. E intanto ci troviamo con gli psicologi clinici costretti a rispondere a quesiti giuridici. Sembra che per risparmiare, si stia scaricando tutto sui consultori. Ma poi i consultori non riescono più a fare il resto.
Inoltre – conclude Iacob – i giudici spesso minacciano procedimenti contro i professionisti: omissione, inadempienza. E così le aziende cedono. Ma questa è una forzatura inaccettabile. A nessun medico verrebbe ordinato di fare quattro flebo. A noi, invece, viene chiesto di vedere un minore tre volte a settimana. Siamo trattati come se potessimo disporre del tempo e delle risorse a comando».